Sì, è vero, non ce ne frega niente

Ieri sera (9 novembre 2020) Report ha scritto un’importantissima pagina della storia giornalistica. Tuttavia, tra le persone che conosco, ero l’unico che stava godendo di un lavoro prezioso, encomiabile e pulito – tutto ciò che i lettori invocano ogni volta che leggono fake news. Però, se il servizio di qualità c’è, si tende a ignorarlo. Perché? Il 13 luglio 2017 pubblicai un articolo sul blog di Fanpage.it (ora chiuso) che può rispondere (in parte) a questa domanda.

Sì, è vero, non ce ne frega niente

Ha ragione Levante: c’è un menefreghismo collettivo, dovuto alla sensazione di iper-individualizzazione virtuale che, nella realtà dei fatti,  rasenta falsi moralismi. E ce ne accorgiamo. Ma non ce ne frega niente lo stesso.

Cosa succede al mondo intorno a noi? Ogni giorno la sensazione che sentiamo, appena ci alziamo e apriamo lo smartphone – prima ancora di mangiare o lavare le nostre parti intime -, è definita “menefreghismo collettivo”. Già, viviamo in minuscoli cunicoli mentali, lobotomizzati dall’esigenza di essere protagonisti per un nanosecondo, pubblicando sogni di pace nel mondo per un pubblico che, al massimo, ti fa un pollice virtuale in su, e neanche usa la mano per salutarti per strada.

Parlare di massa è fuorviante, perché almeno la massa ha un’ideologia, un credo comune. Invece, l’individuo moderno è asociale, cinico, arrogante, modificabile e sfiduciato. Non solo dalla propria società, persino nei confronti dei propri simili, i quali diventano fastidiosi nemici della propria realtà. Sia gli accondiscendenti, sia i reazionari.

In tutto ciò, «noi siamo tutti uguali, ma il colore della pelle conta», come il fatto che sia importante se un assassino abbia origini italiane o estere, e non che abbia ucciso una o più persone. E si crea uno slogan, si guarda al dettaglio populista, e intanto gridiamo “aiutiamoli a casa loro”. Case, le loro, rase al suolo dalle bombe, le nostre.

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Manca la capacità di fare rete, una parola che dovrebbe essere la più prestigiosa e vitale della Storia attuale. Siamo sempre in rete, ma non per fare rete. Nell’online cerchiamo di fare brand marketing, di promuovere la nostra immagine, più che il messaggio in sé: con «le armi da tastiera» fendiamo colpi mortali e autoritari su alcuni argomenti, anche se non ne siamo gran conoscitori, divenendo portatori sani di falsi moralismi.

Dietro «lo scudo dello schermo» siamo sapienti, coraggiosi, pronti ad accettare sfide impossibili e a rivoluzionare il mondo con iconico eroismo, pronti a divenire i poli centrali dell’internet, gli eletti. Rilasciamo pillole di conoscenza e magnanimità che, magari, neanche sono nostre, ma sono copia-incollate da Wikipedia, che è un agglomerato di contributi di vari utenti, che potremmo essere anche noi. Un cane che si morde la coda. Siamo fautori di una conoscenza acquisita leggendo titoli online di siti dai nomi improponibili.

Grazie a queste iconoclastiche informazioni, «lanciamo [iconoclastiche] opinioni fino a sera», con il solo intento di far sentire la nostra presenza, e non di creare una reazione o accendere la miccia, il pensiero. Preferiamo urlare alle fake news, soprattutto a quelle più banali. Mentre uno si dovrebbe preoccupare di chi ci casca con tutte le scarpe.

In tutto questo, ci scandalizziamo, il web si indigna, «inizia la bufera, codardo chi non c’era». Ma su cosa? Sulla fuffa. Sul nuovo programma televisivo, sui tradizionali nasoni romani, sui divieti orari imposti sull’alcool, sul cantante – o presunto tale – che si esibisce in playback. Risse sociali a non finire, e contemporaneamente i numeri della povertà crescono, altalene accessibili vengono chiuse e leggi moderne restano fuori la porta di Montecitorio.

Silenzio, però, mica dobbiamo parlarne. O, meglio, mica dobbiamo usare questi strumenti di ultima generazione che potrebbero aiutare le nostre questioni sociali. Perché, sì sa, porta sfortuna. O diventi perbenista, pedante e rompicoglioni, alla peggio. La questione è semplice: preferisco farti vedere la mia vacanza a Ibiza pagata coi soldi di qualche mio parente invece che darti un’emozione, anche di rivolta. Cliché? Può darsi, come il silenzio delle piazze, perché la lotta passa attraverso il modem. E se non ce l’hai, sei fuori dal mondo. Non esisti. E non sei quantificabile, degno di nota.

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Sì, i social network la fanno da padrona sulle nostre vite e su ciò di cui vogliamo parlare. Sembra che non ce ne rendiamo conto. Abbiamo ridato un lavoro a un fautore del trash, ma ci lamentiamo che non ci sia per noi, o che non abbiamo il lavoro del fautore del trash, nonostante la nostra presenza social. E non vogliamo denunciare le truffe sociali. Frasi trite e ritrite, certo, ognuna utilizza il proprio strumento come meglio crede: ma da quando esiste la realtà virtuale, ogni più piccola parola, foto o video comincia ad avere un peso enorme. E noi ce ne freghiamo.

E pensare che oggi il mondo della comunicazione è stuprato e svalutato dalle stesse società che, consapevoli di quanto sia fondamentale la comunicazione, la retribuiscono poco. Ma a noi cosa interessa? L’individuo accetta la situazione, perché si deve salvare, e lascia marcire quelli che non assecondano una realtà disgustosa. Suggeriscono di accettare la vita così com’è, ma nello stesso tempo si piangono addosso a causa della propria società. Si elevano a falsi eroi, senza un minimo di preoccupazione per la propria integrità morale. Ebbene, oggi non abbiamo bisogno di esempi da seguire, ma dei voucher.

Sorvolando sulle varie idiozie – fisici scultorei e angolature perfette per ritrarre il proprio corpo online, per poi scoprirsi di novanta gradi differenti -, la comunicazione è l’arma attuale più potente che abbiamo. Il passato lo insegna, ma il presente se lo sta lentamente  dimenticando. E l’arte ne risente, mentre il fucile resta più carico che mai. Perché la pace non la si porta comunicando, ma sparando. Che sia un bang, che sia “a zero”.

Il problema è che non ce ne frega niente. O meglio, sono in molti a fregarsene. Ma allora stiamo parlando presuntuosamente di unica verità? Forse, ma se si è arrivati a leggere qui, allora qualcosa di vero c’è scritto. Altrimenti, ti bastava il titolo. Ognuno difende il proprio orticello dagli sguardi altrui, vuole creare invidia che riversa sui propri contenuti online. Perché l’obiettivo è questo: creare invidia e divario sociale. Io ho ciò che tu non potrai mai avere, anche se non l’ho conquistato da solo, e godo. Ostento la mia fortuna sulla tua sfortuna, il mio idolo ballerino – sullo yacht coi soldi che non sono suoi – approverebbe.

Non abbiamo tempo per informarci, non abbiamo tempo per scegliere una fetta della nostra società da difendere, non abbiamo tempo per scrivere contenuti ritenuti importanti per il nostro futuro. Ma lo abbiamo per idolatrare e condividere artefatti umani, quello sì. E in tutto questo restiamo a guardare, a fissare lo schermo. Non faccio parte del gruppo, dunque perché mi preoccupo? Sì, è così. Perché tanto, «la gente grida aiuto», ma «io spero non capiti a me».

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