Secondo me, c’è un discorso di fondo sul Covid che abbiamo timore di affrontare perché poi bisognerebbe fare i conti con la propria coscienza – e dubito che siamo pronti. Io ci provo.
Da quando è finito il lockdown, mi sono autoimposto regole severe: ad esempio, ho iniziato a indossare ovunque la mascherina, pure mentre mi venivano scattate delle foto, tra risate generali di conoscenti e anche qualche sguardo strano da parte degli estranei. Per molti ero diventato il giornalista che parlava solo e sempre del Coronavirus e delle ripercussioni sociali – manco fossi un cagacazzi di livello cosmico. Lo facevo perché credevo che il tema aveva bisogno di essere sensibilizzato, e il tempo mi sta dando ragione.
Ho rinunciato a molte cose, ho perso diverse possibilità, la mia prospettiva di vita ha subito dei danni ingenti. Ma ho comunque deciso di limitare la mia libertà individuale su più fronti, ho preso numerose precauzioni, ho scelto di limitare i miei spostamenti. Perché io una terza quarantena (ne ho avuta una seconda, fortunatamente era un falso allarme) non me la voglio fare.
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Ho agito così non solo perché una chiusura totale significherebbe per me una perdita di livello imponente, ma perché so bene che il mio comportamento individuale ha conseguenze nella comunità: a Ostia, a Roma, in Italia, non ci sono solo io. Vivo con altre persone, e una mia ingenuità potrebbe contagiare altri e aggravare la vita di qualcuno. C’è chi la chiama empatia, a me piace il termine lungimiranza.
Nel corso degli ultimi mesi, ho visto persone giustificare ogni occasione con scuse banali pur di sfilarsi la mascherina, mentre io diventavo il tipo a cui chiedere “Ma come fai a respirare con la mascherina?”. Vajelo a dì te che meno male che ancora respiro, visto la fine che hanno fatto in molti.
Non lo nego, ho ricevuto anche prese in giro di un certo tipo e, in alcune occasioni, mi è stato chiesto di mettere la salute al secondo posto – cosa che io non dimenticherò facilmente. Anzi, il Covid mi ha mostrato la vera natura delle persone. E questo, in futuro, sarà prima o poi materia di analisi. Almeno per me.
Per tutto questo tempo ho ascoltato storie, dichiarazioni, voci, testimonianze e racconti che avevano lo stesso minimo comun denominatore: “a me, tanto, sto virus mica mi colpisce”. Un senso di deresponsabilizzazione che non riguarda solo i negazionisti, ma ci accomuna tutti, soprattutto in quelle piccole situazioni in cui ci credevamo lontani dal virus, per poi scoprire che siamo vulnerabili come qualsiasi altra persona.
Abbiamo sbagliato, su tutta la linea. Anche io ho commesso qualche leggerezza, ne sono certo. Ci è stato chiesto di badare al nostro appartamento per qualche ora, e invece abbiamo dato fuoco a tutta la casa.
Lo dirò con estrema franchezza: è inutile dire che la colpa è solamente dell’applicazione e dell’emanazione tardiva o meno di nuove regole e su come sono state comunicate, non sarebbe un’analisi accurata.
È anche colpa nostra, delle nostre piccole disattenzioni e del nostro sentirci invincibili di fronte al Covid – almeno fino a che non ci tocca fare il tampone, e allora lì sono cazzi, perché ti accorgi purtroppo che il pericolo esiste, è reale, ti stritola la gola e ti fa sentire le pareti più strette, e che forse quella mascherina era più importante in faccia invece che al gomito.
Lasciatemelo dire, abbiamo proprio un buco empatico: non è possibile che ci accorgiamo del pericolo solo se ci scappa il morto vicino alla nostra sfera di cristallo ultrasottile. Non abbiamo la cultura alla prevenzione.
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Quanto è accaduto qualche notte fa a Napoli è figlio sicuramente di frustrazione, rabbia, agonia, angoscia, disperazione per la paura di un nuovo lockdown, di vedere le proprie attività crollare, di non poter tornare a scuola, di non avere più il proprio lavoro, di non poter più inseguire i propri sogni.
Queste sono tutte voci che avrebbero dovuto esser state ascoltate, ma che purtroppo nessuno ha fatto, perché d’estate, come ci ha detto una nota virologia, non c’è né di coviddi, e quindi a me chemmene frega a me.
Ma questa violenza, questi assedi, questi assalti al giornalista di Sky che stava facendo semplicemente il suo lavoro non giustificano tutto ciò. Perché se oggi ci troviamo qui è perché tutti, nel nostro piccolo, abbiamo sbagliato, abbiamo abbassato la guardia, abbiamo pensato che fosse tutto finito e abbiamo schernito chi la mascherina se la metteva pure nelle per fare una passeggiata quando non era obbligatoria.
È ora di prenderci le nostre responsabilità. Se avevamo così tanta paura del lockdown, potevamo pensarci prima di permettere manifestazioni a cielo aperto ai negazionisti, di portare gente positiva in luoghi di lavoro, di far schiacciare i pendolari nei mezzi pubblici, di non attuare un piano economico serio per la salvaguardia delle attività economiche come ristoranti, pub, palestre e via discorrendo, di non aver indossato la mascherina quando era richiesto, di non aver osservato le regole, di non aver incentivato lo smart-working, di non aver pensato che un comportamento spregiudicato potesse corrodere la fatica fatta negli scorsi mesi.
Abbiamo avuto la nostra chance. Se siamo furbi, useremo il coprifuoco come il sentore che forse è necessario fare un passo indietro e riqualificare il nostro concetto di tutela di sé e degli altri. Sarebbe l’ora di farlo.
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